Il falso problema della ricerca non ripetibile

 

 

LORENZO L. BORGIA & LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 02 marzo 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Un numero rilevante di studi, svolti con una correttezza metodologica formale tale da superare il vaglio di referees di alta qualificazione e meritare la pubblicazione sulle maggiori riviste scientifiche, presenta risultati che si rivelano non riproducibili, in parte o totalmente, con la fedele ripetizione della procedura sperimentale seguita da parte di gruppi di ricerca indipendenti. Tale questione, tornata di attualità sotto l’etichetta di “problema della ricerca non riproducibile”, riguarda le neuroscienze particolarmente per due campi fra loro distanti per metodo ed oggetto: la psicologia e la neuropsicofarmacologia.

Tutta l’impresa scientifica umana si basa sull’esecuzione di esperimenti con rigore metodologico galileiano e sulla possibilità di verifica dei risultati mediante la ripetizione delle prove sperimentali nelle stesse condizioni. Questo nucleo procedurale si è dimostrato efficace anche alla prova del pur criticabile sistema competitivo che vige nella massima parte delle istituzioni scientifiche; infatti, gruppi di ricerca indipendenti hanno sempre interesse a verificare sperimentalmente un risultato ottenuto da altri che si annuncia come una scoperta: se non si riesce a riprodurre l’esito, si funge da correttori, togliendo un merito ai concorrenti; se si ottiene lo stesso risultato, si sarà giunti secondi e non ultimi nella “competizione” per la scoperta. La ripetizione, come sa chiunque abbia fatto esperienza di laboratorio di biochimica e di biologia molecolare, è la base stessa del procedere quotidiano, anche in quelle indagini preliminari che portano a decidere di scegliere o meno di seguire una nuova pista: quante volte la quasi certezza teorica è smentita dai fatti della sperimentazione? E quante volte l’incrollabile fiducia del ricercatore in un presupposto di conoscenza sostiene centinaia di ripetizioni di un esperimento fino a quando non si ha l’esito sperato?

Come lo stesso metodo scientifico, la ripetizione, sia quale mezzo per giungere alla corretta realizzazione di un esperimento, sia soprattutto quale strumento di verifica di risultati ottenuti, non deve certo essere messa in discussione. Se oggi ci troviamo di fronte al dato oggettivo di un numero molto alto di lavori sperimentali i cui risultati non possono essere riprodotti, è necessario porsi il problema della concezione, della struttura, della qualità e della finalità dei progetti che sottendono tali lavori, per comprendere le ragioni di così tante bocciature[1].

Il problema principale, a nostro avviso, riguarda la scelta dell’oggetto di ricerca, la definizione del progetto e l’assegnazione dei finanziamenti. Riteniamo che molti degli studi dai risultati non ripetibili, soprattutto in ambito psicologico, non meritavano di essere eseguiti; un tale severo giudizio, che più avanti proveremo ad argomentare, può più facilmente essere condiviso se si opera un’ideale comparazione col valore di molti progetti sperimentali che rimangono sulla carta o sono sospesi e abbandonati per mancanza di finanziamenti. Al novero degli studi non ripetibili appartengono lavori che, nella maggior parte dei casi, con qualunque risultato, non fornirebbero elementi di conoscenza concettualmente nuovi. Al contrario, fra i numerosi progetti inevasi per mancanza di credito vi sono quelli volti all’identificazione di processi e molecole chiave nella mediazione degli effetti terapeutici di stati cerebrali e mentali.

Prendiamo le mosse dagli studi psicologici. In questo caso, per caratteristiche intrinseche dell’oggetto, non si può certo pretendere il rigore della ricerca biochimica; tuttavia, si deve notare che negli studi interdisciplinari e nella sperimentazione basata sulla rigorosa misura di parametri neurofunzionali, si riesce ad ottenere un grado accettabile di definizione e misurazione degli oggetti di studio. Non si può dire la stessa cosa della maggior parte delle osservazioni psicologiche comportamentali condotte secondo i canoni classici di molte branche della psicologia accademica[2]. L’esempio che segue ci sembra particolarmente significativo[3].

Katie Corker, psicologa presso la Grand Valley State University, ha provato a riprodurre uno studio pubblicato nel 2008 su Science con grande risonanza mediatica; i risultati del lavoro suggerivano che tenere tra le mani qualcosa di caldo, come un boccale contenente caffè preparato all’americana, induce a comportarsi in maniera più calorosa. Ma, quando la Corker ha provato a definire il protocollo dell’esperimento, si è accorta che mancavano molti dati salienti, fra cui la temperatura del caffè caldo e in quanto tempo la bevanda nervina si raffreddasse tra le mani dei 94 volontari sottoposti alle prove.

Si può osservare che in questa branca di studi psicologici si è andato affermando un criterio di osservazione comportamentale in gran parte basato sulle convenzioni della descrizione fenomenica e non più legato al rigore che ha caratterizzato, ad esempio, lo studio della psicofisiologia della percezione fin dagli studi pionieristici condotti da fisici, che portarono alla formulazione della legge di Weber-Fechner. Nel caso dello studio verificato dalla Corker, si può riconoscere una responsabilità dei referees di Science che avrebbero dovuto rispedire il testo agli autori, richiedendo di specificare dati e parametri mancanti; tuttavia, sappiamo che anche gli esperti appartenenti alla commissione della prestigiosa rivista americana per questo tipo di ricerca psicologica sono culturalmente integrati nella deriva recente, che accetta una forma di osservazione appartenente più alla tradizione degli studi umanistici che alla psicologia sperimentale. Un problema simile non si potrebbe verificare nella ricerca biomedica di base, dove le cause di non riproducibilità sono ben diverse.

Ma la nostra critica a questi studi è più radicale. A parte che l’effetto psicologico del tenere del caffè caldo tra le mani può essere attribuito all’evocazione implicita di memorie episodiche e di stati affettivi associati alla circostanza di prendere il caffè o qualsiasi altra bevanda e non alla temperatura in sé e per sé, si dovrebbe poi intraprendere una serie di esperimenti con gelati, ghiaccioli e recipienti neutri a bassa temperatura per verificare un atteggiamento freddo e scostante da parte dei volontari, e non sorprendersi che il gelato rende meno freddi di un recipiente neutro tanto freddo da farti male alle dita; e nemmeno sorprendersi che possa rendere freddi e mal disposti un recipiente di caffè bollente che scotta le mani!

Dalla stessa radice teorica della concezione che ha ispirato lo studio in cui la metafora del calore è intesa come analogia di sostanza affettiva, provengono le tesi secondo cui gli aspetti qualitativi della mente, con la psicologia che ne deriva, non siano altro che conseguenze di pattern funzionali periferici e viscerali, e pertanto, modificando tali schemi di stato, funzione e atteggiamento, è possibile influenzare la psicologia del soggetto.

Qualche decennio fa si moltiplicavano gli studi tendenti a dimostrare che l’assunzione di espressioni mimiche facciali simili al sorriso influenzi positivamente l’affettività e il tono dell’umore. E così si leggeva di studentesse che dovevano trattenere un cucchiaino tra il labbro superiore e il naso, in tal modo forzando la rima labiale alla posizione del sorriso, e si apprendeva dell’influenza positiva esercitata da questo gioco sullo stato psichico nell’esecuzione di compiti sperimentali. È questo un esempio emblematico di una categoria di studi che mette alla prova delle influenze periferiche dovute all’associazione nei pattern di espressione del tono affettivo: quando siamo allegri, contenti, soddisfatti e ben disposti sono pre-attivati gli schemi funzionali neuromotori del sorriso, che sono sempre associati a quello stato mentale; attivando gli schemi periferici del sorriso non meraviglia che sia facilitata l’attivazione centrale dello stato psichico normalmente associato.

Tali effetti sono patrimonio della conoscenza psicologica comune, e proprio nelle condizioni di saggio ricreate per gli esperimenti trovano una condizione ideale per manifestarsi. Non era necessario, a nostro avviso, allestire centinaia di esperimenti simili in tutto il mondo per dimostrare che l’attivazione di una parte periferica di uno stato funzionale complessivo possa evocare lo stato principale[4]. È comprensibile e nota tale influenza, tanto quanto è nota, per comune esperienza, la sua scarsa importanza nella realtà quotidiana, perché numerosi fattori – non solo eventi di grande importanza emotiva – possono sopprimere, includere o rendere irrilevanti queste influenze.

Una categoria concettuale, prossima a questa e da sempre parte dalla psicologia spicciola, è rappresentata dall’influenza delle caratteristiche dell’ambiente materiale sul comportamento umano: un effetto psicologico che si conosce per semplice pratica di vita, ma che vanta un’antica storia antropologica. Architetti e urbanisti sfruttano da sempre questo effetto, che ha innumerevoli esempi tanto nel passato quanto nell’esperienza del presente. Basti pensare alle richieste dei sovrani sulle dimensioni e le caratteristiche degli elementi architettonici dell’ingresso dei palazzi reali, per intimidire villani e stranieri, ed indurre timore e rispetto, favorendo atteggiamenti di soggezione. Oppure, nel tempo presente, si pensi alle influenze psicologiche e comportamentali indotte dall’aspetto e dalle caratteristiche dei luoghi pubblici: salta agli occhi la differenza di atteggiamento e condotte delle stesse persone quando transitano attraverso ambienti mal ripartiti, trascurati o sudici, rispetto a quando entrano in locali strutturati in forma razionale, caratterizzati da sale arredate con raffinata eleganza, pavimenti a specchio ed allestimenti di pregio. Il modo trasandato e caotico del primo caso, cede il posto ad un atteggiamento più civile, ordinato e rispettoso nel secondo, come può confermare chi viaggia di frequente. Si può scommettere su quanto emergerebbe da una verifica sperimentale: una maggioranza del campione subisce l’influenza dell’ambiente e solo una minoranza risulta non influenzata. È giustificabile l’investimento di cifre considerevoli di danaro pubblico o di finanziamenti privati alle università e ad altri istituti scientifici per determinare l’esatta proporzione fra maggioranza e minoranza? In ogni caso, non si otterrebbe un progresso di conoscenza, come quando si scopre che una particolare variante genica o una data configurazione di connessioni cerebrali predispone ad un tratto psicologico o psicopatologico, ma si produrrebbe un semplice dato statistico, tra l’altro soggetto a variare con cambiamenti socioculturali e politico-economici.

Si possono accostare questi progetti allo studio delle basi di atteggiamenti psicologici in grado di attivare schemi funzionali cerebrali e psico-neuro-immunitari che agiscono da difese anticancro e antidegenerative?

Per quanto riguarda la ricerca farmacologica finalizzata all’individuazione di nuovi psicofarmaci e neurofarmaci, i problemi sono numerosi e da noi affrontati in questi anni attraverso recensioni, aggiornamenti e commenti critici che si possono leggere nei numerosi articoli dedicati all’argomento nella sezione “Note e Notizie” del sito. Dai limiti delle teorie a fondamento della sperimentazione (es.: teoria dopaminergica delle psicosi; teoria serotoninergica della depressione, ecc.) alla forzatura consapevole di modelli animali inadeguati a rappresentare la base neurale della psicopatologia umana; dall’impiego esclusivo di roditori maschi nella sperimentazione animale, pur conoscendo le differenze nei due sessi, all’estensione agli uomini di effetti psicofarmacologici provati con discreta certezza solo nelle donne (SSRI nella depressione maggiore), gli errori da correggere dei ricercatori sono numerosi; ma a questi si deve aggiungere un problema più grande, costituito dalla “patologia della ricerca clinica”, ossia da quell’insieme di pratiche scorrette o fraudolente messe in opera per conto di case farmaceutiche (vedi il caso degli “autori fantasma”)[5] o da parte di ricercatori e volontari corrotti. Di questo argomento ci occupiamo da anni: qui di seguito si riporta un brano tratto da un nostro articolo di qualche anno fa, purtroppo ancora attuale:

«Una prima stortura del sistema è rappresentata dall’esistenza di persone che fanno i “volontari professionisti”, cioè passano da uno studio sperimentale all’altro per poter percepire il compenso, anche se non in possesso dei requisiti che soddisfino pienamente i criteri previsti dal disegno sperimentale.

Come è possibile una cosa simile? È possibile grazie alla seconda e più grave stortura del sistema, consistente in una forte pressione esercitata dalle case farmaceutiche attraverso ingenti incentivi economici per i ricercatori che reclutano persone secondo il criterio del maggior numero possibile, nel minor tempo possibile. In tal modo, si crea una complicità a danno della regolarità dello studio: il paziente, o finto tale, ha interesse ad accentuare o inventare di sana pianta dei sintomi per entrare nel campione, ed il ricercatore ha interesse ad includerlo per riscuotere la ricompensa in denaro che va dai 10.000 ai 30.000 dollari per persona reclutata. E’ perfino superfluo sottolineare come in psichiatria una simile frode sia molto più facile che in qualsiasi altro settore della ricerca clinica: le commissioni di controllo, per considerare dislipidemico un volontario di uno studio sul metabolismo, si basano sui tassi ematici di colesterolo e trigliceridi rilevati e riscontrati mediante esami emoatochimici condotti da laboratori indipendenti; se si deve giudicare l’idoneità a partecipare ad una sperimentazione clinica di farmaci antipsicotici di un paziente che dice di sentire delle voci, ci si deve basare sulla sua parola.

I campioni sperimentali “annacquati” dalla presenza di falsi pazienti o di “pazienti sbagliati”, cioè affetti da un disturbo più lieve o del tutto diverso da quello per il quale la molecola era stata concepita nelle fasi precedenti della sperimentazione, ovviamente daranno risultati meno affidabili, che possono apparire immediatamente poco convincenti, se contraddicono le attese, o risultare straordinariamente soddisfacenti, quando l’aggiunta dei falsi pazienti ha migliorato la presunta performance del farmaco. Nel primo caso, i risultati impongono un’ulteriore verifica sperimentale; nel secondo, per accorgersi della inattendibilità dell’esito, sarà necessario un tempo maggiore; bisognerà, infatti, attendere uno studio condotto con rigore da un gruppo indipendente di ricercatori eticamente integri.

Tutto ciò si traduce in una perdita di tempo e di denaro straordinaria. Attualmente, il costo che porta una molecola dalle fasi dei saggi preliminari al brevetto e poi al mercato, è stimato 1.8 miliardi di dollari, ma questa cifra, già astronomica, è destinata a salire per colpa di queste frodi.

Ma perché questi problemi sono quantitativamente rilevanti e, quindi, siamo costretti ad occuparcene?

La risposta è in un trend difficile da arrestare, soprattutto in un periodo di crisi economica.

Secondo il Tuft Center for the Study of Drug Development, nel 1994 il 70% dei ricercatori che studiavano molecole a scopo terapeutico apparteneva a centri medici universitari o ad associazioni scientifiche di alto prestigio accademico e finanziate con denaro pubblico. Oggi, la proporzione è pressoché invertita: solo il 36% dei ricercatori ha questo profilo e non è direttamente o indirettamente al soldo di case farmaceutiche. Ma nemmeno questa quota può considerarsi del tutto scevra da sospetto: il 36% dei finanziamenti (grants) che aiutano a condurre o completare degli studi svolti in istituzioni accademiche, proviene dalle aziende.

In anni recenti il governo degli Stati Uniti ha varato vari regolamenti, impostati secondo il contrasto al conflitto di interessi, e volti al fine di combattere l’influenza delle case produttrici di farmaci sulla ricerca medica, ma molto si deve ancora fare per evitare quanto accade nel settore degli psicofarmaci.

Consideriamo uno scenario tipico di trial clinico per un ipotetico nuovo psicofarmaco: un’azienda farmaceutica vuole testare l’efficacia di un composto che ha mostrato, ad esempio, la capacità di ridurre il comportamento depressivo nei topi. Ricordiamo che in questa fase lo studio farmacodinamico e farmacocinetico è stato già compiuto. Primo, è necessario, avendo già proceduto ai saggi di tossicità ed efficacia di base, attuare piccole prove di controllo che confermino l’innocuità della molecola. Secondo, si dovrà somministrare la nuova sostanza ad un grande numero - il più grande possibile, per aumentare la significatività - di pazienti depressi allo scopo di verificarne la reale efficacia.

A questo punto si segue una procedura standard, in modo sempre assolutamente corretto, anche perché derogare vorrebbe dire perdere la credibilità scientifica e il posto di lavoro: i pazienti sono distribuiti casualmente (randomization) in due gruppi, quello che riceverà il nuovo farmaco e quello che riceverà la “pillola di comparazione”, cioè la molecola maggiormente impiegata come standard terapeutico o un placebo, ossia un “finto farmaco” costituito da una compressa di materiale inerte come il talco, oppure a base di zucchero. La somministrazione avviene in doppio cieco, in altre parole chi somministra non sa se sta dando il nuovo farmaco o la pillola di comparazione e, allo stesso modo, i volontari non sanno cosa stiano ricevendo. Per l’attuazione di questa procedura, si impiegano dei kit predisposti che consentono la siglatura separata e l’abbinamento segreto dei contenitori e si procede per passi controllati, così che solo alla fine dell’esperimento i ricercatori conosceranno le chiavi dell’abbinamento e potranno procedere all’elaborazione dei dati ottenuti. È evidente che un numero elevato di volontari che si fa passare per depresso, essendo magari solo un po’ triste, stanco, insonne o sfiduciato, accrescerà non solo il numero di persone che avranno apparentemente tratto beneficio dal nuovo farmaco, ma anche di quelli che avranno apparentemente tratto beneficio dal placebo.

Nella sperimentazione psicofarmacologica la percentuale di fallimento dei trials clinici è elevatissima. La metà degli antidepressivi posti al vaglio risulta inaccettabile per uso terapeutico, e il motivo principale è che nella maggior parte dei casi non risultano più efficaci di una pillola di zucchero. Non è ragionevole pensare che, nonostante i progressi della farmacologia di base, giungano alla sperimentazione umana molecole molto meno efficaci di quelle che vi giungevano tanti anni fa. La spiegazione non può che essere nei volontari “finti pazienti” che inconsapevolmente elevano il grado di apparente efficacia del placebo. Proprio gli alti livelli di risposta al placebo in questi studi, hanno fatto insospettire medici e farmacologi ignari del problema, così come tanti ricercatori impegnati nella sperimentazione neuroscientifica non farmacologica. La risposta positiva al placebo, innescata da suggestione o da altri processi imponderabili, si ritiene sia dovuta alla naturale e spontanea azione curatrice del cervello, e costituisce per questo lo zero ideale dal quale deve partire una stima di efficacia farmacoterapica. Se metà dei volontari, che si suppone siano affetti da una forma di depressione che richiede trattamento farmacologico, migliora senza farmaco e senza alcuna forma di psicoterapia o di sostegno affettivo-relazionale, allora una quota molto più alta del 50%, che corrisponde allo zero virtuale, dovrà mostrare un sensibile miglioramento. Infatti, se il farmaco risultasse efficace nel 60% dei casi, vorrebbe dire che solo il 10% dei volontari ha ricevuto un giovamento superiore a quello che si avrebbe senza farmaci. Se, per ipotesi, in queste condizioni una nuova molecola antidepressiva risultasse efficace nel 98% dei volontari che l’assumono (cosa che nella realtà non si verifica mai) al netto dell’effetto placebo, che naturalmente si verifica anche con le sostanze farmacologicamente attive, la sua reale efficacia dovuta allo specifico meccanismo molecolare eccederebbe del 48% la risposta aspecifica al placebo, rimanendo paradossalmente del 2% inferiore.

Anche se i numeri che ho proposto a scopo esemplificativo - per rendere immediatamente evidente il modo in cui i falsi pazienti possano compromettere i risultati - non sono esattamente quelli delle sessioni sperimentali, riflettono la sostanza concettuale di un problema che è stato affrontato da vari gruppi di ricerca. Una mole crescente di lavori ha direttamente implicato il fenomeno della “selezione inappropriata dei soggetti” quale causa dell’innalzamento dei livelli di risposta al placebo. In questi studi si compara la valutazione condotta da ricercatori privi di interessi materiali diversi dagli scopi scientifici e clinici, con quella di loro colleghi che hanno ricevuto incentivi per compiere il lavoro»[6].

La scoperta di queste pratiche illegali, deontologicamente inammissibili e pericolose per la salute dei cittadini, oltre che dannose per la reputazione della scienza, si è avuta anche grazie a studi condotti con il massimo rigore scientifico e morale, col solo fine della conoscenza a beneficio dei pazienti. Tali studi spesso sono stati realizzati su campioni meno numerosi, ma utili nel proporre risultati affidabili – per quote fisiologicamente basse di effetto placebo – e spesso in contrasto con gli esiti di grandi trial incentivati dalle case farmaceutiche.

Concludendo, a nostro avviso è più corretto parlare di “problemi creati dalla cattiva ricerca” che di “problema della ricerca non ripetibile”.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia & Ludovica R. Poggi

BM&L-02 marzo 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] In altre parole, non si deve prendere a pretesto questo fatto per dare adito e forza alle anacronistiche istanze antiscientifiche di movimenti che, su base preconcetta, tendono a discreditare il metodo sperimentale. Per tale ragione, non è giustificabile mettere insieme studi di branche diverse non riproducibili per ragioni differenti, creando il “caso della ricerca non riproducibile”. Il rischio della prospettiva assunta dalla giornalista freelance Shannon Palus su Scientific American (“Make Research Reproducible”, v. dopo) è proprio la messa in discussione dell’impresa scientifica nel suo complesso: le ragioni dell’impossibilità di riprodurre gli esperimenti sono in una cattiva pratica, non nell’inaffidabilità del metodo.

[2] Si ricorda che la neuropsicologia, nata in seno alla neurologia dell’Ottocento che aveva individuato lesioni alla base di afasie, amnesie, agnosie e aprassie, è stata considerata a lungo l’unica branca psicologica degna di credito scientifico da parte della comunità medica. Le stesse scienze cognitive si sono sviluppate sulla base dell’evoluzione delle tecniche e delle metodologie adottate dai medici neuropsicologi del Novecento. Si pensi agli studi sui pazienti con cervello diviso e all’introduzione nei curricula medico-specialistici della cognitive science nata dall’Hixon Symposium del 1948.

[3] È stato recentemente citato da Shannon Palus in Make Research Reproducible, Scientific American 319 (4): 48-51, October 2018.

[4] È perfino superfluo ricordare che tali influenze sono sfruttate da metodi impiegati in varie tecniche psicoterapeutiche.

[5] Note e Notizie 07-04-07 La frode delle case farmaceutiche mediante autori-fantasma.

[6] Note e Notizie 24-11-12 Patologia della ricerca di nuovi farmaci in psichiatria – prima parte. Se si vuole leggere l’interessante seguito: Note e Notizie 01-12-12 Patologia della ricerca di nuovi farmaci in psichiatria – seconda parte.